Mi chiamo Marco e sono un musicista. Ho 38 anni e durante gli ultimi 3 le cose si sono messe abbastanza bene per me. Ho raggiunto un discreto grado (non enorme, ma soddisfacente) di quello che alcuni chiamano “successo”. Rifletto spesso su cosa ciò significhi, anche alla luce delle mie origini. Sono nato e cresciuto in una famiglia di operai. E ho le idee abbastanza chiare.
Sono arrivato alla conclusione che il successo è quello che la società sventola davanti agli occhi di tutti per far credere che se uno si impegna ce la fa, che se uno se lo merita, può farcela con le sue sole forze. Può avere successo, appunto. Tutto questo è ovviamente falso, questa società non è in grado di premiare tutti, non premia tutti quelli che lavorano e si impegnano.
Questa piazza è piena di esempi! Ma c’è un’altra terribile implicazione in tutto questo: se ognuno è responsabile delle proprie fortune, allora ognuno è colpevole del proprio fallimento! Se guadagni poco, se sei disoccupato o se sei povero la colpa è tua, perché non ti impegni e quindi non te lo meriti. Questo è un errore, anzi un orrore. Questa è un’ingiustizia spirituale che si aggiunge all’ingiustizia materiale. Come ci siamo arrivati? Come siamo arrivati a venerare il potere, i soldi, la bella vita, a considerarli lo scopo del vivere in società, e a considerare la povertà come qualcosa di normale, qualcosa che inevitabilmente colpisce chi non lavora abbastanza o non ha i mezzi per raggiungere il successo? Perché questa società non si scandalizza per le ingiustizie, invece di concentrarsi sul profitto e sulla “crescita”? È semplice. Ha trionfato il punto di vista dei vincitori. Dei ricchi e dei potenti. E sono stati dimenticati gli ultimi, dimenticati quelli che sono alla base della società, quelli che permettono all’economia di stare in piedi. Quelli che con il loro lavoro costruiscono la ricchezza degli altri. Non si può accettare lo scandalo della povertà, lo scandalo della disuguaglianza sociale. E non bisogna pensare che basti impegnarsi nel proprio lavoro per risolvere i problemi. Perché sta succedendo il contrario. Chi possiede gran parte della ricchezza economica si arricchisce sempre di più grazie all’impegno e al sacrificio dei lavoratori. I lavoratori, invece, sono sempre più poveri. Sta succedendo, negli ultimi decenni, una vera assurdità: si richiede a molti lavoratori un maggior impegno, un maggior sacrificio, ma questo li porta solo a peggiorare la loro vita, in termini di stress e di guadagni insufficienti a garantire un’esistenza dignitosa. Io mi rifiuto di accettare questo schifo. Come cittadino, ma prima di tutto come essere umano, non voglio assolutamente rimanere complice o indifferente rispetto all’ingiustizia sociale. E non me ne frega niente del colore della pelle o del luogo in cui una persona nasce. Vedo sempre la stessa cosa, un essere umano sfruttato. Vedo lo stesso grande problema. Questa pandemia ha soltanto fatto riaffiorare vecchi problemi, portandoli all’esasperazione. Girarsi dall’altra parte o pensare che in qualche modo si debbano accettare in silenzio ulteriori “sacrifici” è semplicemente impossibile. Insostenibile.
Cosa c’entra tutto questo con la cultura, l’arte, la musica? C’entra nella misura in cui le ingiustizie sono ormai enormi e sotto gli occhi di tutti. Non solo la situazione disumana dei braccianti, ma anche il futuro negato a intere generazioni.
E quindi la ricerca ossessiva del successo, la celebrazione narcisistica della star, l’esibizione di grandi numeri si sono svuotate di significato. Oggi all’arte va richiesto impegno, critica e se necessario aperta accusa di tutto un sistema di potere politico-economico che negli ultimi anni ha quasi prosciugato il dibattito pubblico riguardo alle ingiustizie. Ancora oggi qualcuno con la pancia e il conto in banca pieni si permette di sputare sul sistema di sussidi a sostegno del reddito. Come se i meno fortunati fossero semplici parassiti. Oggi sono qui a puntare il dito contro il neoliberismo e in generale la visione del mondo che ha guidato le politiche europee negli ultimi decenni. Non credo al libero mercato, perché è una giungla che fa trionfare i più potenti e assetati di soldi. Non credo alla tutela dei più ricchi. Non ne hanno bisogno. Io mi dissocio, come uomo, come cittadino e come artista, dai valori dominanti. Mi dissocio dall’ideale del successo, perché è il punto di vista dei vincitori. Mi dissocio dall’ideale della vittoria economica, della ricchezza. Perché sono sempre vantaggi che si basano sullo svantaggio di altri.
La musica del presente non può più celebrare ciò che esiste, non può più ignorare o giustificare l’ingiustizia, non può più accettare il darwinismo sociale. Morte tua, vita mia: io ce l’ho fatta, tu o ti impegni o muori. No.
L’arte oggi deve sostenere le masse degli sfruttati, deve sostenere il loro riscatto sociale, criticare i valori dominanti. Non deve celebrare il successo individuale. Celebrare il successo individuale significa giustificare e accettare l’insuccesso di tutti gli altri. Per questo sono qui. Per dire chiaramente che esistono musicisti e artisti che odiano questo sistema, che appoggiano un’idea di società giusta, in cui i ricchi siano come minimo meno ricchi e la povertà semplicemente non esista. Lo sfruttamento e la miseria sono uno scandalo, qualunque sia il colore della pelle, qualunque sia la lingua o l’accento con cui si parla. Qualunque sia la fedina penale o il grado di istruzione.
C’è un altro aspetto, meno evidente ma strettamente legato con questa lotta ideologica.
Io mi occupo di musica pop e di clubbing, musica elettronica e tutto ciò che è collegato a quel mondo. Quindi anche i concerti e il ballo. Il ballo e la festa sono vietati praticamente ovunque. E non parlo dei divieti dovuti all’emergenza sanitaria. Parlo della miriade di limiti e regole che di fatto hanno reso quasi impossibile una cultura musicale e popolare di strada. La burocrazia e le regole imposte ai concerti, alle feste e all’aggregazione, nate con motivazioni di sicurezza, hanno limitato sempre di più la vitalità spontanea. Un esempio su tutti: la famigerata Circolare Gabrielli, che impone a ogni manifestazione musicale e non solo di organizzare piani di sicurezza sempre più stringenti e costosi. Questo significa che gli organizzatori di qualsiasi evento, piccolo o grande, sono costretti a spendere una quantità di denaro talvolta insostenibile e a sobbarcarsi oneri burocratici infiniti. Questa legge non fa che aumentare la disparità sociale! Infatti chi può permettersi migliaia di euro di piano di sicurezza se non gli eventi più grandi, con budget più alto? E di tutti i piccoli eventi, dalla sagra di paese organizzata dai pensionati ai micro-eventi sportivi magari a scopo di beneficenza fino alle feste di quartiere, quasi nessuno può permettersi di sostenere quei costi. Perchè spesso non è il profitto lo scopo di quelle manifestazioni. Molti rinunciano a organizzare. Rinunciano e alzano le spalle. A queste condizioni, perchè farsi un culo così e rimetterci soldi? Ti passa la voglia. Questo accade in continuo. Silenziosamente.
Il risultato non è una maggiore sicurezza, ma una vita sociale più triste, una distruzione silenziosa dell’aggregazione spontanea. La distruzione, insomma, della cultura popolare. Le strade festanti arricchiscono le nostre città, l’espressione artistica dal basso permette a una società di vivere rinnovandosi, di crearsi una propria identità e dei valori condivisi. Ma anche semplicemente di creare spazi di FELICITA’.
Le persone in festa insieme sono migliori, sono più propositive ed empatiche. La festa riempie lo spirito delle persone. Aboubakar mi ha stregato perché è ben consapevole di questo legame tra empatia e lotta contro l’ingiustizia. L’empatia e l’aggregazione libera e spontanea vanno di pari passo. E l’aggregazione spontanea unisce le persone, anche nelle lotte e nelle rivendicazioni. Il cuore della democrazia insomma. Invece no. Si preferisce abbandonare le città al traffico, al commercio, al lavoro e allo sfruttamento invisibile. Alla solitudine. Questo va bene alla politica: ognuno solo, col proprio lavoro, con le proprie preoccupazioni, con le proprie paure. Riducendo al minimo gli spazi di evasione, di celebrazione della vita, di espressione di ciò che di più bello gli strati popolari hanno: lo spirito di comunità. Così come sono stati dimenticati gli ultimi, gli invisibili, allo stesso modo la cultura popolare e di strada è stata schiacciata. Spesso restano soltanto gli spazi dell’illegalità, feste e ritrovi non completamente a norma o addirittura clandestini dove prima o poi arriva la polizia a bloccare tutto. Bloccare gente festante e unita. Io non voglio vivere ancora anni di repressione e di regressione culturale. Rivendico la libertà di espressione e di aggregazione. E non mi basta che si dica che posso farlo, seguendo delle regole che somigliano molto a una truffa. Voglio che quelle regole siano cambiate in modo da INCORAGGIARE E AGEVOLARE l’aggregazione e non ostacolarla! Essere insieme in strada è una cosa che a tutti noi manca da morire. È qualcosa di cui abbiamo terribilmente bisogno. Ma che è ostacolata da ben prima del covid. Quando questa emergenza sarà passata, dovremo essere pronti a riempire le strade di gioia. Ci vogliono nuove regole! Regole che favoriscano lo spirito di comunità e la cultura popolare. Riprendiamoci le strade, la vita, le città. Riprendiamoci il futuro, tutte e tutti insieme.
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